Chiesa del Gesù Nuovo, piazza del Gesù 2
In origine insisteva in quell’area il palazzo Sanseverino, progettato e ultimato nel 1470 da Novello da San Lucano per espresso volere di Roberto Sanseverino principe di Salerno.
Da Roberto poi, l’edificio passò al figlio Antonello che, per contrasti con la Corte aragonese (essendosi posto a capo della Congiura dei baroni nel 1485), in quello stesso anno subì la confisca dei beni e fu pertanto costretto a fuggire da Napoli. Successivamente, suo figlio Roberto II ottenne il perdono dal re di Spagna e la famiglia poté tornare nel palazzo dove tenne in seguito le celebri “accademie”, con la partecipazione tra gli altri di Pietro Aretino.
Ai tempi del figlio di Roberto II, Ferrante Sanseverino, e della moglie Isabella Villamarina, il palazzo era celebre per la bellezza dei suoi interni, le sale affrescate e lo splendido giardino. Era inoltre un punto di riferimento per la cultura napoletana rinascimentale e barocca nella persona di Bernardo Tasso, segretario di don Ferrante.
Il viceré don Pedro di Toledo nel 1547 tentò di introdurre a Napoli l’Inquisizione spagnola. Il popolo si ribellò e Ferrante Sanseverino sostenne l’opposizione popolare. Pur riuscendo ad impedire questa grave iattura per Napoli, tuttavia egli non poté evitare la vendetta degli spagnoli, che gli confiscarono tutti i beni e lo obbligarono nel 1552 ad andare in esilio.
Nel 1584 il palazzo con i suoi giardini fu acquistato dai gesuiti, grazie anche all’interessamento del nuovo viceré spagnolo, don Pedro Girón, duca di Osuna. I gesuiti, tra il 1584 ed il 1601, riadattarono l’edificio civile a chiesa, istituendo poi, in quell’area, la cosiddetta “insula gesuitica“, cioè il complesso di edifici ospitanti la compagnia di Gesù, composta, oltre che dalla chiesa, anche dal Palazzo delle Congregazioni (1592) e dalla Casa Professa dei Padri Gesuiti (1608).
Entrati in possesso del palazzo, i gesuiti incaricarono della ristrutturazione di tutto il complesso i loro confratelli Giuseppe Valeriano e Pietro Provedi. Essi sventrarono completamente il sontuoso palazzo, non risparmiando né le splendide sale né i giardini; le uniche parti che si salvarono furono la facciata a bugne ed il portale marmoreo rinascimentale. I lavori furono finanziati dalla principale benefattrice dei gesuiti di Napoli: Isabella Feltria Della Rovere, principessa di Bisignano (in quanto moglie di Niccolò Bernardino Sanseverino, ultimo esponente del ramo dei Sanseverino principi di Bisignano). Il nome della principessa, insieme a quello di Roberto I Sanseverino, è ricordato nell’iscrizione racchiusa in un cartiglio marmoreo presente sull’architrave del portale principale. Il cartiglio fu apposto nel 1597, come indica la data in fondo alla stessa iscrizione, che corrisponde all’anno in cui la chiesa fu aperta al culto. La consacrazione avvenne invece il 7 ottobre 1601 e la chiesa fu intitolata alla Madonna Immacolata, patrona del casato del viceré don Pedro Girón, come riconoscimento per la sua mediazione nella vendita dell’antico palazzo ai gesuiti. Tuttavia, la nuova chiesa fu fin da subito chiamata correntemente “del Gesù Nuovo“, per distinguerla dall’altra già esistente, divenuta ormai “del Gesù Vecchio“.
La cupola originariamente opera del Provedi ha subito nei secoli vari crolli finché nel 1975 fu rifatta in calcestruzzo armato dal Provveditorato alle Opere Pubbliche della Campania.
I Gesuiti hanno gestito la chiesa con diverse interruzioni a causa delle espulsioni subite nel Settecento e nell’Ottocento e solo dal 1900 occupano stabilmente il complesso.
Facciata
La caratteristica facciata di palazzo Sanseverino fu conservata quale facciata della sovrimposta chiesa. Essa è caratterizzata da particolari bugne in forma di massicce piramidi aggettanti (dette “diamanti“), consuete nel Rinascimento veneto.
Le piramidi presentano dei criptici segni incisi dai tagliapietra napoletani addetti alla sagomatura del piperno, durissima pietra locale, segni interpretati come identificativi delle diverse squadre di lavoro, ma che nei secoli hanno dato vita alle più diverse interpretazioni anche esoteriche.
Anche la parte centrale del portale marmoreo appartiene al vecchio palazzo Sanseverino e risale agli inizi del XVI secolo. Tuttavia, nel 1695 i gesuiti apportarono alcune modifiche aggiungendo bassorilievi barocchi alle mensole su cui poggia il fregio superiore e al cornicione: prolungando la cornice del portale, essi aggiunsero lateralmente al portale due colonne corinzie di granito rosso e, sopra, un frontone spezzato sormontato dallo stemma della Compagnia di Gesù – con due cherubini in marmo nell’atto di sorreggere lo stemma – e altri due angeli più grandi, sempre in marmo, uno su ciascun lato del frontone. Ciascuno di questi due angeli tiene un braccio alzato e poggia l’altro braccio sul frontone. Gli angeli e il frontone furono realizzati da Pietro e Bartolomeo Ghetti.
L’emblema dei gesuiti all’interno di uno scudo ovale, comprende la croce con la famosa abbreviazione “IHS” del nome di Gesù e, al di sotto di essa, i tre chiodi della crocifissione di Cristo. Sui due stipiti del portale, accanto ai capitelli delle due colonne, furono apposti gli stemmi dei Sanseverino e dei Della Rovere che, in dimensioni maggiori, sono riprodotti anche sulla sommità dell’estremo margine destro e sinistro della facciata.
I portali minori sono cinquecenteschi: la decorazione dei battenti con lamina metallica fu eseguita a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo.
Interno
L’interno, ricco di decorazioni marmoree realizzate da Cosimo Fanzago nel 1630, è a croce greca con braccio longitudinale lievemente allungato. Presenta una cupola in corrispondenza del centro del transetto e dieci cappelle laterali, cinque per lato, delle quali due collocate di fianco all’abside lungo la parete presbiteriale.
Pavimento
Il pavimento in marmi policromi, realizzato nella prima metà del XVIII secolo presenta numerosi stemmi e lapidi che ricordano i benefattori della chiesa.
Lo stemma più grande, di dimensioni enormi, si trova poco dopo l’ingresso, appena oltre le acquasantiere in marmi pregiati del XVII secolo, e si estende per alcuni metri sia in lunghezza che in larghezza. Occupa infatti una grossa parte del corridoio centrale che separa le prime due file di banchi, e copre ben più dell’intera distanza tra una fila e l’altra, grazie all’ampio sfondo che riproduce un drappo di ermellino orlato d’oro.
Si tratta dello stemma di Isabella Feltria Della Rovere, principessa di Bisignano e maggiore finanziatrice della chiesa, come indica la grande iscrizione sottostante, che riporta anche la data del 1728, probabilmente relativa all’anno di inizio dei lavori della pavimentazione. Lo stemma comprende, sul lato destro, l’emblema dei Della Rovere, e sul lato sinistro quello dei Sanseverino, in considerazione del titolo di principessa che la nobildonna acquisì dal marito: Niccolò Bernardino Sanseverino, ultimo principe di Bisignano.
Controfacciata
Sulla controfacciata, in corrispondenza della navata centrale, sopra il portale principale, è presente il grande affresco di Francesco Solimena con la Cacciata di Eliodoro dal tempio (episodio biblico narrato al capitolo 3 del Secondo libro dei Maccabei e già descritto in un celebre affresco di Raffaello), firmato e datato 1725.
Organi
In una zona antistante l’abside, la chiesa comprende anche due organi a canne, sopraelevati all’interno delle ultime due arcate tra quelle che separano la navata centrale dalle due navate laterali. Il progetto per l’inclusione degli organi nella struttura della chiesa fu probabilmente ideato da Giuseppe Valeriano e completato nel 1617: esso prevede nelle rispettive arcate due archi ribassati per sostenere la struttura degli organi.
Cupola
La cupola, ricostruita da Ignazio di Nardo nel 1786 e consolidata nel 1975 da una struttura in calcestruzzo armato, presenta una calotta sferica scandita dalle finestre lunettate. Le decorazioni in stucco riprendono il motivo del cassettonato, mentre sui pennacchi si trovano gli affreschi che rappresentano i quattro evangelisti, unici resti del ciclo realizzato da Giovanni Lanfranco nel primo Seicento.
Abside e presbiterio
l ciclo di affreschi dell’abside è interamente dedicato alla Vergine Maria, e venne realizzato da Massimo Stanzione tra il 1639 e il 1640, per consentire ai gesuiti di celebrare al meglio il centenario della loro fondazione. I due grandi affreschi al centro della volta rappresentano l’Assunzione e l’Incoronazione della Vergine.
La parete di fondo dell’abside venne realizzata a cavallo dei secoli XVII e XVIII su progetto di Cosimo Fanzago, ed è caratterizzata da un’architettura in marmi policromi con sei colonne corinzie di alabastro, al cui centro si apre una nicchia che ospita la grande statua della Madonna Immacolata, scolpita nel 1859 da Antonio Busciolano. La statua, in marmo bianchissimo, poggia su un globo blu in lapislazzuli, attraversato in diagonale da una fascia dorata e circondato da un gruppo marmoreo di cherubini. I cherubini e il globo poggiano su un piedistallo in marmo grigio, ornato da foglie stilizzate e da due grandi volute laterali in marmo bianco. Ai lati del piedistallo si trovano due angeli grandi e due cherubini, anche questi in marmo bianco come i precedenti. Il tutto poggia infine su un basamento in marmi policromi, che sovrasta l’altare.
Sia il globo che il piedistallo risalgono al XVIII secolo e fanno parte di un progetto di Domenico Antonio Vaccaro, come pure gli angeli e i cherubini ai lati del piedistallo, realizzati tra il 1742 e il 1743 da Matteo Bottiglieri e Francesco Pagano. Del progetto originario del Vaccaro non si sono purtroppo conservati i due gruppi scultorei principali, raffiguranti la Trinità e l’Immacolata, entrambi in argento e datati 1742, anno in cui, per poterli accogliere, fu allargata la nicchia centrale della parete di fondo dell’abside. I due gruppi furono infatti requisiti, consegnati alla zecca e fusi per regio decreto borbonico nel 1798, durante il periodo di assenza dei gesuiti, insieme a tutte le statue e gli oggetti in metallo prezioso delle chiese di Napoli (escluso il Duomo) per ricavare risorse finanziarie da impiegare nella guerra contro i francesi. Ai lati della statua dell’Immacolata si trovano due altorilievi marmorei, riconducibili alla scuola dello stesso Domenico Antonio Vaccaro, che rappresentano Sant’Ignazio di Loyola e San Francesco Saverio. Sotto di essi sono presenti due statue del Busciolano, sempre in marmo bianco, raffiguranti San Pietro e San Paolo.
Sulle pareti laterali dell’abside si trovano due grandi nicchie, ciascuna delle quali racchiude un coretto e un portale sottostante, riccamente decorati. Le due nicchie, i portali e i coretti sono stati realizzati probabilmente su progetto di Giuseppe Astarita, tra il 1759 e il 1762. Ciascun portale è sormontato da due angeli di marmo bianco, nell’atto di sorreggere lo stemma con il monogramma mariano. Gli angeli sul portale sinistro sono opera di Francesco Pagano, quelli del portale destro di Matteo Bottiglieri. Lo stemma mariano è abbellito, sulla sommità, da una conchiglia, ed è circondato da varie volute.
L’altare maggiore, ultimato nel 1857, fu ideato dal gesuita Ercole Giuseppe Grossi e progettato da Raffaele Postiglione. Tutte le pregiate sculture e decorazioni di questo altare sono incentrate sul tema dell’eucaristia, e furono realizzate da vari artisti sotto la supervisione del gesuita Alfonso Vinzi, allora prefetto della chiesa. Il basamento dell’altare, che nella parte centrale comprende la mensa, è caratterizzato da tre grandi bassorilievi, sempre in bronzo nero: a sinistra La cena di Emmaus, di Gennaro Calì, al centro, nel paliotto, L’ultima cena , sempre di Gennaro Calì, e, a destra, La promessa dell’eucaristia fatta da Gesù a Cafarnao, di Salvatore Irdi.
Ai lati dell’altare troviamo due gruppi scultorei portacandelabro in marmo, che rappresentano i simboli dei quattro evangelisti. In ciascun gruppo un angelo, nell’atto di sorreggere il candelabro, poggia su un’aquila, che a sua volta poggia su un leone ed un bue. I gruppi sono stati realizzati da Gennaro Calì, che scolpì i due angeli, in collaborazione con Giuseppe Sorbilli ed Enrico Gova, autori dei simboli sottostanti.
Cappella della Natività
La seconda cappella della navata sinistra, dedicata alla Natività e terminata nel 1603, viene chiamata anche cappella Fornari, dal nome del committente Ferrante Fornari, giurista e alto magistrato del vicereame spagnolo di Napoli.
Sui piedistalli delle due colonne ai lati dell’altare è ripetuto lo stemma del cardinale Nicolò Coscia, cofondatore della cappella insieme al Fornari.
La cappella è abbellita da affreschi di Belisario Corenzio, del 1601. La pala d’altare, di Girolamo Imparato, è del 1602 e rappresenta la Natività. Il personaggio inginocchiato sulla sinistra del quadro, in adorazione di Gesù Bambino, è quasi sicuramente lo stesso committente Ferrante Fornari.
La cappella comprende inoltre ben undici statue, realizzate dai migliori scultori attivi a Napoli in quel periodo. Le statue della parete frontale, entrambe del 1600, raffigurano, in basso, Sant’Andrea, di Michelangelo Naccherino (a sinistra), e San Matteo e l’Angelo, di Pietro Bernini (a destra). In alto, invece, vediamo due figure di santi, San Gennaro (a sinistra) e San Nicola (a destra), entrambe di Tommaso Montani e databili al 1601-1602. Nella parte alta delle pareti laterali sono presenti due statue eseguite entro il 1603: a sinistra San Giovanni Battista, di scuola del Naccherino, e a destra San Giovanni Evangelista, di Girolamo D’Auria.
Cappella di Sant’Ignazio di Loyola
Il cappellone di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei gesuiti fu commissionato dal tristemente famoso Carlo Gesualdo da Venosa che è sepolto proprio ai piedi di detto altare. La decorazione è di Cosimo Fanzago, Costantino Marasi e Andrea Lazzari per quanto riguarda l’architettura e i marmi (1637-1645 circa), mentre le statue del David e Geremia (1643–1654), rispettivamente alla sinistra e alla destra dell’altare, furono eseguite dal Fanzago stesso.
Queste sculture, che rappresentano due capolavori assoluti del grande artista bergamasco, sembrano quasi voler uscire dalle nicchie, mal sopportandone le dimensioni troppo piccole rispetto alla propria mole. Il tema comune alle due sculture, basato sulle vicende dei due personaggi biblici, viene da una meditazione di Sant’Ignazio di Loyola sulla pochezza delle capacità e dei progetti umani rispetto all’infinita potenza e imperscrutabilità di Dio, e quindi sul primato assoluto della fede. Solo grazie alla fede, infatti, il giovane Davide riuscì a sconfiggere l’apparentemente invincibile guerriero Golia. E, d’altro canto, la mancanza di fede in Dio e l’affidamento sulle sole forze militari, nonostante gli ammonimenti del profeta Geremia, costò al popolo ebreo la sconfitta contro il re Nabucodonosor, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione in Babilonia.
Sotto ciascuna delle due statue si trova lo stemma della famiglia Sanfelice. Infatti, su una lapide posta sul pavimento antistante la cappella, un’iscrizione spiega che, nel 1860, Francesco Sanfelice fece spostare sotto la lapide le spoglie della defunta moglie, Maria Luisa Caracciolo, dei principi di Santobuono, spoglie che, fino ad allora, erano custodite nel sepolcro gentilizio dei Santobuono.
La pala d’altare è di Paolo de Matteis, con una Madonna con Bambino tra Sant’Ignazio di Loyola e San Francesco Saverio, del 1715. Il quadro prese qui il posto della pala originaria di Girolamo Imparato, Visione di Sant’Ignazio a La Storta, dei primissimi anni del ‘600, ora visibile sulla parete destra della cappella.
In alto, rispettivamente al centro ed a destra dell’altare, troviamo due tele di , entrambe del 1643-44: Gloria di Sant’Ignazio e Papa Paolo III approva la regola di Sant’Ignazio. In quest’ultimo quadro, alle spalle di Sant’Ignazio, si riconoscono due dei suoi primi compagni, Nicolás Bobadilla e Alfonso Salmerón.
Cappella del Crocifisso o di San Ciro
La cappella del Crocifisso o di San Ciro (Carafa) fu disegnata da Dionisio Lazzari nel 1659 e finanziata dalla prima benefattrice dei gesuiti di Napoli: Roberta Carafa, duchessa di Maddaloni. Ciò è ricordato dalla lapide posta sul pavimento della cappella, davanti all’altare.
Al di sopra dell’altare è presente un pregevole gruppo scultoreo ligneo della seconda metà del Cinquecento, di Francesco Mollica, che ritrae la scena della Crocifissione di Cristo, con la Vergine e San Giovanni Evangelista ai piedi della croce. Ai lati del gruppo ligneo si trovano due statue, ritraenti San Ciro (a sinistra) e San Giovanni Edesseno (a destra). Le statue sono state scolpite rispettivamente nel XVIII e XIX secolo. Sotto l’altare si trova l’antichissima tomba di San Ciro, risalente al IV secolo.
Cappella di San Francesco de Geronimo o Ravaschieri
La navata termina con la cappella di San Francesco De Geronimo, detta anche cappella Ravaschieri, dal nome del committente Ettore Ravaschieri, principe di Satriano, vissuto nella prima metà del XVII secolo.
La cappella, che funge da abside della navata sinistra, fu inizialmente dedicata alla Madonna, e quindi a Sant’Anna. Nel 1716 si decise di cambiare nuovamente la dedica della cappella per intitolarla al padre gesuita Francesco De Geronimo, la cui morte era avvenuta in quell’anno, già in odore di santità. Avviata ben presto la causa di beatificazione, ebbero allora inizio i lavori di trasformazione della cappella. Nel 1737 Giuseppe Bastelli realizzò un originale altare con colonne tortili di stile berniniano, in marmo verde, alle quali furono presto aggiunte delle finiture in rame. Bastelli fu anche autore dell’intera decorazione marmorea della cappella, compreso il pavimento. Sull’altare si trova un gruppo scultoreo di Francesco Jerace, che rappresenta la Predicazione di San Francesco De Geronimo.
Nel timpano dell’altare si trova un’antica copia della famosa icona bizantina di Maria Salus Populi Romani (detta anche “Madonna di San Luca“, per la tradizionale attribuzione del dipinto), custodita nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.
Sulle due pareti laterali si trovano due grandi lipsanoteche lignee, che rappresentano l’elemento più singolare e suggestivo della cappella e, probabilmente, dell’intera chiesa. Ciascuna parete comprende 35 busti, disposti in cinque file e contenenti reliquie dei primi martiri cristiani. In posizione centrale, rispetto ai busti di entrambe le pareti, si trovano le statue, sempre lignee, di Sant’Ignazio di Loyola, a sinistra, e di San Francesco Saverio, a destra. Le lipsanoteche furono realizzate alla fine del XVII secolo, da non ben individuati artisti del barocco napoletano, sotto la direzione di Giovan Domenico Vinaccia. Le reliquie dei martiri contenute nelle lipsanoteche (che in origine erano distribuite negli altari di tutta la chiesa) furono donate, già a partire dal 1594, dalla principale benefattrice dei gesuiti di Napoli, la principessa di Bisignano, Isabella Feltria della Rovere, che in parte le aveva a sua volta richieste e ottenute dal cardinale Odoardo Farnese.
Cappellone di San Francesco Saverio
Il cappellone di San Francesco Saverio corrisponde al lato destro del transetto, e venne realizzato a spese di Beatrice Orsini, duchessa di Gravina, come ricordano la lapide sul pavimento e i due stemmi ai lati dell’altare.
San Francesco Saverio (1506-1552), uno dei primi compagni di Sant’Ignazio di Loyola, fu il primo missionario gesuita a raggiungere l’Asia, dando inizio alle prime missioni della Compagnia di Gesù in India, in Giappone e in diverse isole del Sud-Est Asiatico.
L’ambiente del cappellone è ornato da decorazioni marmoree di Giuliano Finelli, Donato Vannelli e Antonio Solaro. Sono invece di Cosimo Fanzago le due sculture laterali, raffiguranti Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, entrambe databili al 1621.
I quadri presenti in alto, di Luca Giordano, sono: San Francesco Saverio trova il Crocifisso in mare tra le chele di un granchio, Il Santo caricato dalle croci ed Il Santo che battezza gli indiani, tutti del 1676-77. È invece di Paolo De Matteis l’affresco nel riquadro più grande, al centro della volta, la Predicazione di San Francesco Saverio. Una porta sulla sinistra del cappellone consente di accedere alle Sale di San Giuseppe Moscati.
Cappella di San Giuseppe Moscati
La cappella è dedicata anche a San Giuseppe Moscati (1882-1927), illustre medico e docente di chimica fisiologica alla facoltà di medicina di Napoli, canonizzato nel 1987, distintosi per l’instancabile carità verso i malati più poveri, che esercitò sia attraverso la professione medica che mediante il sostegno umano e materiale.
Il corpo del Santo si trova nell’urna in bronzo presente al centro della cappella, davanti al paliotto dell’altare, dove è stato trasferito nel 1977. L’urna, realizzata in quello stesso anno da Amedeo Garufi, comprende tre bassorilievi che rappresentano rispettivamente: San Giuseppe Moscati che tiene una lezione all’università, che guarisce un bambino tenuto sulle ginocchia dalla madre, e che cura i malati in ospedale.
Sul lato sinistro della cappella si trova la statua in bronzo del Santo, scolpita da Pier Luigi Sopelsa nel 1990.
Fin dalla collocazione del corpo del Santo nell’urna, la cappella è meta di frequenti visite e pellegrinaggi di fedeli. Gli stessi fedeli si recano spesso anche nelle Sale di San Giuseppe Moscati, alle quali si accede tramite una porta presente sul lato sinistro del cappellone di San Francesco Saverio. Queste sale custodiscono foto storiche, manoscritti e ricordi materiali del Santo. Sono compresi gli abiti e gli strumenti medici, e persino gli arredi dello studio medico e della stanza da letto, presenti in origine nella sua casa, che si trova a breve distanza dalla chiesa, e che qui sono stati ricreati interamente dopo la donazione di tutti questi oggetti da parte della sorella Anna.
Fonti utilizzate:
Napoli Atlante della città storica – Centro Antico di Italo Ferraro Napoli 2002, Guida Sacra della città di Napoli di Gennaro Aspreno Galante Napoli 1872, Wikipedia